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  • Immagine del redattoreVincenzo D' Aniello

Pier Paolo Pasolini e l’Italia dello sviluppo senza progresso.

Che cos’è lo sviluppo? E cos’è il progresso? Negli Scritti corsari della prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, il poeta e artista Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975) sottolineava l’importanza che avevano assunto quelle due parole nella discussione pubblica e la confusione che emergeva dalla riflessione intellettuale sia nel pensarle come descrizione di due momenti diversi dello stesso fenomeno sia nel considerarli come espressione di fenomeni opposti. E le cose si complicavano quando si intuivano le articolate e contraddittorie relazioni fra questi due termini e i processi economico-sociali e culturali a cui rimandavano.

La parola sviluppo, in genere, si riferisce al processo economico e sociale che avviene in un territorio o anche nel sistema mondiale e, in generale e soprattutto con l’avvento dell’epoca moderna, a quel cambiamento che si è verificato con il passaggio da una società agricola basata sulle risorse naturali e il loro sistematico sfruttamento, a quella incentrata sull’industria e il settore terziariodei servizi a essa collegata. Il termine progresso, invece, sta a indicare l’elevazione umana e morale, legata a una concezione della storia concepita come lineare miglioramento dell’esistenza a cui approdano gli esseri umani e le comunità societarie grazie al rafforzamento delle basi materiali e, quindi – con un passaggio logico e consequenziale dato per scontato –, delle sue espressioni sociali e persino spirituali.

Parlando della società italiana, Pasolini rifletteva sulla volontà degli attori sociali che erano a favore dello sviluppo: gli industriali che producono beni superflui, in primo luogo, ma poi anche i consumatori di quei prodotti, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo”, che significava, nell’immediato cambiamento quantitativo della loro vita quotidiana, una visibile promozione sociale. Questa si esprimeva, comunque, nell’abbandono di quei valori culturali legati a un’esistenza di miseria e al risparmio ricavato dall’attività lavorativa. La “massa” è dunque per lo “sviluppo”, argomentava il poeta, per motivi esistenziali e diventa portatrice dei nuovi valori della società consumista.

Il progresso, invece, è voluto da quelli che non hanno interessi immediati da soddisfare, ma si battono per la qualità della vita e delle relazioni umane, vale a dire da operai, contadini e intellettuali di sinistra: chi lavora e chi dunque è sfruttato. Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica), continuava Pasolini, in un passaggio elementare nel senso positivo di definizione delle condizioni di base di un discorso sulla complessità del reale, là dove lo “sviluppo”, invece, è un fatto pragmatico ed economico.

In termini di ideologia e di azione politica, in riferimento soprattutto alla società italiana, è la destra – che spesso lo scrittore definiva, senza mezzi termini, clerico-fascista – a volere e a fare concretamente lo sviluppo, mentre è il progresso a cui mira la sinistra. Per raggiungere il potere, tuttavia, quest’ultima finisce per volere quello sviluppo, realizzato dall’industrializzazione e rappresentato dall’espansione economica e tecnologica borghese. Nel sistema capitalista, insomma, è possibile il progresso soltanto se si pongono le basi strutturali costituite dallo sviluppo, così come viene realizzato nel tempo storico in cui si vive e dai detentori del potere economico, sociale e politico che governano la cosa pubblica.

Tutte qui sono, in effetti, la realtà e le contraddizioni delle condizioni economico-sociali, della prassi politica e della cultura che hanno prodotto quella mutazione antropologica presente nella storia italiana di cui parlò Pier Paolo Pasolini in una serie di interventi apparsi fino a un mese prima della sua tragica uccisione – avvenuta nella notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia – sulle pagine del Corriere della Sera e della rivista Il Mondo, e uscite postume nel volume Lettere luterane (Einaudi, 1976).

In Italia, più che in altri Paesi, vi è stato quello sviluppo senza progresso, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, nel quale gli italiani furono gettati nel vortice dei processi di individualizzazione e di modernizzazione tipici dell’età contemporanea con il passaggio dalla società tradizionale e contadina a quella dominata dall’industria e dall’urbanizzazione. Nella vita frenetica delle città, gli esseri umani agiscono, quindi, secondo le logiche del mercato, in una società conformista definita dal poeta come penitenziario del consumismo, dove regna l’omologazione dei valori, spesso spacciata per emancipazione sociale. Un’illusione provocata anche grazie alla falsa rappresentazione della realtà promossa dalla televisione, che era stata ingenuamente definita, al suo apparire, come quella finestra sul mondo che avrebbe mostrato agli spettatori le meraviglie dello sviluppo e del progresso.

Dure furono le parole del poeta, nel parlare di tutta la classe politica, ma in particolar modo della Democrazia Cristiana, con il suo ambiguo e, in alcuni casi, pseudo-democratico uso del potere. La sua indignazione lo portava a scrivere che l’Italia è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue, mentre i cittadini erano l’immagine della frenesia più insolente ed era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti. Lo sviluppo diventato fine a se stesso e non mezzo per il benessere sociale, insomma, ha portato addirittura al regresso rappresentato dal degrado morale, sociale e dell’ambiente naturale. E l’errore si è trasformato in orrore.

Dagli anni Settanta della profetica analisi pasoliniana ai nostri giorni, nel tempo dominato dall’informazione televisiva e da quella che scorre sulle pagine digitali dei social network, in un’Italia sempre più in crisi, assistiamo increduli all’invocazione dei pieni poteri da parte di un ministro di una democrazia parlamentare, mentre dalle regioni Artiche e dall'Amazzonia in fiamme arrivano le immagini dell’inferno sulla Terra, causato dall’irresponsabile e non sostenibile sviluppo infinito su di un pianeta dalle risorse grandi ma finite.


Pier Paolo Pasolini: l’Italia paese senza memoria.

Pier Paolo Pasolini è stato un poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo italiano.

Ma Pasolini è stato molto di più.

Pasolini è stato la cartina di tornasole delle coscienze, il filtro delle libertà, lo sfasciacarrozze della morale comune, dei benpensanti e del popolo bue, il contrappasso di quella borghesia che non ha più trovato il suo specchio, sentendosi orfana culturalmente e moralmente.

Quante volte, oggi, leggendo o guardando qualcosa pensiamo: chissà cosa ne penserebbe Pier Paolo Pasolini? Chissà cosa scriverebbe, cosa avrebbe di nuovo da dirci, da sottolineare, da precisare.

Ecco, tutto questo si può fare soltanto con i grandi, i grandissimi, quelli che lasciano una sedia vuota che non viene più occupata, come quei calciatori inarrivabili dei quali si ritira la maglia perché non più indossabile da nessuno

Pier Paolo Pasolini è stato tutto questo, e molto di più.

Ricordando l’osservazione di Pier Paolo Pasolini sull’Italia paese senza memoria:Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare come è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale”.


Pier Paolo Pasolini è stato un gigante della cultura e della storia italiana.

Intellettuale di grande talento, noto per le sue opere provocatorie e critiche nei confronti della società e del potere.

La sua cultura e lungimiranza rimangono patrimonio indelebile della cultura italiana.


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